Dabrafenib: valutazione delle conseguenze cliniche ed economiche della sua introduzione sul mercato per la cura del melanoma in stadio avanzato
Anno: 2014 - Vol: 3 - Num. 5
L’incidenza del melanoma appare da anni in costante ascesa sia fra gli uomini (+3,5% per anno) che fra le donne (+3,6% per anno); in generale, l’aumento del numero di diagnosi di tumore è un fenomeno complesso attribuibile a molteplici fattori, riconducibili macroscopicamente a due circostanze: l’aumentata esposizione ai fattori di rischio correlati al tumore e l’anticipazione della diagnosi grazie a campagne di prevenzione secondaria e metodi diagnostici più accurati. Nel caso del melanoma, fortunatamente, sembra essere soprattutto l’aumentata capacità diagnostica a spiegare la crescita dei tassi di incidenza.
Si può stimare per l’Italia lo sviluppo di circa 1700 - 1800 casi di melanoma avanzato non resecabile e metastatico ogni anno.
Di questi circa il 50% presenta una mutazione al codone 600 del gene BRAF responsabile della sintesi di una chinasi B-Raf coinvolta attivamente in un complicato sistema di trasmissione del segnale che, in ultima, porta a regolare il ciclo di sviluppo cellulare.
Da un punto di vista strettamente clinico, i risultati di alcuni studi retrospettivi suggeriscono come tale mutazione possa indurre una prognosi più sfavorevole fra i pazienti in stadio avanzato, con sopravvivenza globale mediana (senza terapie farmacologiche mirate) inferiore del 30% rispetto ai wild-type, ma manca la conferma da parte di studi prospettici condotti ad hoc.
Durante il progetto Melanoma Treatment Pathway il gruppo di lavoro ha evidenziato alcune aree di miglioramento del sistema, dove auspicabilmente si dovrebbero concentrare eventuali progetti specifici:
- awareness della patologia, dei fattori di rischio, dei comportamenti preventivi e delle possibilità di prevenzione dei cittadini;
- awareness della patologia, dei fattori di rischio, dei comportamenti preventivi, delle possibilità di prevenzione, diagnosi e cura del medico di medicina generale;
- mancanza di linee guida sul follow-up dei pazienti trattati chirurgicamente;
- mancanza di linee guida standardizzate sulle procedure di linfoadenectomia;
- scarsa conoscenza nei reparti oncologici di piccoli ospedali della possibilità di trattamento in clinical trials, expanded access o programmi di uso compassionevole, e difficoltà per i pazienti di alcune regioni ad accedere ai trials clinici (Sardegna, Sicilia, Umbria, Trentino in particolare);
- integrazione delle linee guida delle diverse professioni mediche coinvolte, relative a prevenzione, diagnosi e trattamento della patologia;
- mancanza di linee guida su utilizzo del test BRAF (quando, dove, a chi, come);
- esistenza di pochi centri specializzati nella cura del melanoma; • scarsa diffusione di melanoma team dedicati (team multisciplinari che coinvolgono oncologo, patologo, dermatologo, chirurgo ed eventualmente radiologo) per la presa in carico del paziente;
- poco sviluppato il network fra patologi per confronto sulle diagnosi difficili.
Tuttavia, l’AIOM ha iniziato da tempo a mettere in campo iniziative per colmare queste lacune, sistematizzando l’approccio diagnostico e terapeutico tramite le linee guida specifiche (le prime delle quali sono del 2012), e il panorama in evoluzione è parzialmente incoraggiante:
- diagnosi più accurate e persone più sensibilizzate; più diagnosi precoci con aumento della sopravvivenza media;
- per i pazienti non operabili o metastatici, sono arrivate la immunoterapia e le terapie mirate, rappresentando un notevole progresso rispetto alle precedenti scarse possibilità di cure e aspettativa di vita bassissima - la chemioterapia sistemica ha sempre dimostrato scarsa efficacia ed è tradizionalmente considerata quasi alla stregua della palliazione.
La European Society of Medical Oncology, l’Associazone Italiana di Oncologia medica e il gruppo di lavoro coordinato da Agenas sono concordi nell’indicare vemurafenib come scelta di prima linea per i pazienti con mutazione V600 in BRAF, ipilimumab come valida opportunità di seconda linea e la chemioterapia come linea di trattamento successiva.
Dabrafenib è un inibitore delle chinasi BRAF; il ruolo in terapia che conquisterà in seguito alla sua diffusione è, similmente a vemurafenib, immaginabile su tre aree con livello crescente di incertezza: nell’immediato, sulla base delle indicazioni già approvate, come prima linea di trattamento per i pazienti BRAF mutati di stadio III non resecabile e IV e poi, nel futuro prossimo, come parte della sequenza ipilimumab e BRAF inibitore, all’approvazione dell’immunoterapia come prima linea, nonché come combinazione con altri farmaci mirati, come il MEK inibitore trametinib.
In ognuno di questi ambiti, l’oncologo si troverà a dover decidere, fra le altre cose, se affidarsi a dabrafenib o a vemurafenib.
La base su cui può fare tale scelta è di fatto il confronto dei due farmaci in termini di efficacia e sicurezza clinica, di praticità di impiego e di costi.
L’efficacia di dabrafenib è stata misurata fra pazienti pretrattati e non, con mutazioni di tipo V600E e K, in confronto a dacarbazina e alla combinazione con l’inibitore di MEK e in associazione con ipilimumab.
Primo endpoint di quasi tutti gli studi revisionati, con l’eccezione di due studi di fase II in cui la risposta globale (BREAK-2) e la risposta intracranica (BREAK-MB) costituiscono gli outcome primari, è la sopravvivenza libera da progressione.
A parità di efficacia e sicurezza, dabrafenib
ha un costo di acquisizione decisamente
inferiore di vemurafenib, per cui dal punto di
vista economico domina l’alternativa; la sua
diffusione nella pratica clinica offre interessanti
possibilità di risparmio al SSN. Questa riduzione
di costi è quantificabile, nel primo anno della
sua introduzione sul mercato, fino a quasi il
10% della spesa farmaceutica complessiva,
che a sua volta rappresenta di gran lunga la
maggior voce di spesa indotta dai pazienti
italiani con melanoma avanzato.